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Recensione psicoanalitica di Nightmare Alley (2021): un tuffo diretto nell’eredità di Freud.


Tratto dall’omonimo romanzo noir del 1946 scritto da W.L. Gresham (all’epoca censurato in più punti, poi dimenticato, e solo nel 2010 ripubblicato in forma integrale, similmente al destino che subì lo scandaloso Santuario di W. Faulkner), e già portato sul grande schermo l’anno successivo in un bianco e nero firmato E. Goulding, ritorna in grande stile un fresco riadattamento cinematografico dal sapore vintage, con un cast blasonato d’eccezione e sotto la guida dell’occhio esperto e penetrante del cineasta messicano Guillermo del Toro. Opera talmente espressiva e perturbante, da mostrare senza dubbio una correlazione profondamente intimistica con la psiche del regista (come poi egli stesso ha effettivamente dichiarato), così come fu per l’autore del testo originale, che visse al limite una breve vita, non meno travagliata dei personaggi dei suoi racconti. Si tratta infatti di un dramma psicologico introspettivo e pregno di simbolismo su sfondo noir, che omaggia i celebri Freaks (T. Browning, 1932), Quarto potere (O. Welles, 1949) e La strada di (Fellini, 1954), riprendendo le efficaci atmosfere moderne di The Prestige (C. Nolan, 2006) e di The Illusionist (N. Burger, 2006), il cui protagonista odora tanto di disfatta dostoevskijana e di destino faustiano,


La pellicola (sul filone de La forma dell’acqua), continua ad affrontare l’eterno problema della natura del male, e, attraverso la figura centrale del mostro, segue le orme dello stesso interrogativo che ha già posto il classico Frankenstein di Shelley: chi è in realtà il vero mostro? L'opera cerca di rispondere a tale domanda scendendo nelle tenebre della mente, ossia descrivendo il percorso (la china scivolosa) di un uomo tormentato da intensi conflitti edipici, che sotto la spinta della cupidigia, di un'ambizione sfrenata e di una illimitata brama di potere e di gloria (di cui il mefistofelico Ezra Grindle è l'emblema), subisce la lenta e inesorabile trasformazione in "bestia".

E lo sfondo della narrazione non poteva che essere il luogo onirico per antonomasia: il luna park itinerante dei giostrai, degli imbonitori, delle carovane dei freaks, dei fenomeni da baraccone. Esso infatti costituisce il regno della fantasia e dell’immaginario in cui tutto è possibile, dove prospera la vita (il brulichio sempre animato e giocoso della festa), sbocciano passioni (l’amore per Molly), si coltivano le arti e i talenti (sotto la guida del mentore Pete)... ma in cui è sempre presente anche la brutalità più primitiva e primordiale dell'Es (incarnata dall’uomo bestia, o meglio dall’impresario del circo che ha accumulato una certa esperienza nel brutalizzare quel poco che resta di umano in reietti e miserabili raccattati per strada).



Tutta la narrazione ci appare attraverso gli occhi del protagonista, che da vagabondo in cerca di un tetto e di un pasto caldo, diventa un abile e noto spiritista dell'alta società (The Great Stan), nel momento in cui comprende che chi diventa capace di leggere desideri, paure e fragilità degli altri, allora può "gabbarli come gonzi" e manipolarli a proprio piacimento per estorcere loro denaro. Stan infatti è un personaggio che ricorda tanto quelle personalità “come se” (o marginali) ben note alla letteratura psicoanalitica, che, impossibilitati nella costruzione di un’identità solida e strutturata (che rimane invece labile, fragile e fallata), divengono (per sopravvivenza) degli eterni "impostori", abilissimi nella finzione camaleontica e nell’arte dell’inganno.

Eppure, come ricorda anche il mentore Pete da cui Stan apprenderà ogni tecnica, l’abilità di imparare ad intercettare immediatamente ogni oscillazione emotiva dell'altro, scorgendone il minimo indizio, proviene in realtà da un difficile passato infantile in cui è stato necessario (in maniera difensiva) anticipare un ambiente totalmente imprevedibile e minaccioso. In tal senso è possibile che per Stan, a livello inconscio, il raggiungimento di uno stato onnipotente (concretizzabile attraverso il potere, la ricchezza e soprattutto il “controllo” delle menti altrui), possa essere funzionale a fornirgli un senso di protezione dai traumi del passato, così come il successo e la gloria possono rappresentare il modo attraverso cui spezzare il destino che lo lega al divenire un ubriacone fallito come suo padre (per un'identificazione che, per quanto rigettata e concretamente assassinata, resta sedimentata nell'immagine di sè).



Di fatto, è impossibile non accorgersi come il tema del complesso d’Edipo attraversi tutta l'opera, quasi nella maniera letterale con cui Freud (1913) ha descritto in Totem e tabù la ricostruzione filogenetica del primigenio assassinio del padre e gli intensi e tormentosi sensi di colpa che ne fanno inevitabilmente seguito.

Tuttavia è noto come l’odio profondo verso il padre nasconda in realtà l'intensa nostalgia del suo amore: Stan infatti porta sempre con sè l'orologio da polso del padre dopo averlo visto morire sotto i propri occhi, e sarà solo nel momento in cui lo scambierà per un misero sorso alla bottiglia, che egli perderà definitivamente la propria identità. Rinunciando all’ultima traccia di ciò che lo identifica con l’umano (l’inserimento nella civiltà da parte del Padre), Stan tornerà a tutti gli effetti a far parte del regno naturale delle bestie: scegliendo cioè di diventare egli stesso un geek, un Mangiabestie, Stan (in quell'iconico ghigno sardonico che chiuderà il film) tenterà di espiare la propria colpa per l'antico crimine commesso, come ultima speranza di redenzione morale.

E in linea col romanzo famigliare edipico, non possono mancare le relazioni significative con le donne: dapprima l'incesto simbolico con l’attempata cartomante Zeena (la madre saggia e accudente, la consorte di Pete), poi l'innocente e pura Molly a cui "regalare il mondo" (la moglie bambina bisognosa di protezione), e infine l’oscura amante vendicativa Lilith (la femme fatale sottovalutata che lo spingerà alla rovina).



Il film sembra muoversi continuamente tra paradossi e contraddizioni, proprio come accade nell’inconscio, in cui il medesimo fenomeno può avere significati anche opposti tra loro: il gruppo dei bizzarri circensi, che inizialmente appaiono inquietanti e ambigui, successivamente si rivelano senza ombra di dubbio molto più umani e assai meno mostruosi della “normale” gente dell’alta società newyorkese, che trasuda crudeltà senza scrupoli in lussuosi saloni déco, studi analitici ipertecnologici e sfarzose camere d’albergo; il tema principe della finzione e dell’inganno, che cozza continuamente contro una realtà fin troppo cruda e brutale nel mostrarsi allo spettatore, senza alcun tipo di mediazione o edulcorazione (fino a raggiungere il pulp); la forte dissonanza tra la prima metà del film, che a tratti arriva a sfiorare toni sentimentali, e la seconda metà, in cui il noir emerge prepotentemente col suo registro cupo e grottesco, man mano che l’anima del protagonista si fa sempre più torbida e corrotta; la mescolanza quasi indistinta tra spiritismo, mentalismo, ciarlanateria e ciò che dovrebbe essere l’etica rigorosa e integerrima della psicoanalisi, anch’essa strumentalizzata e inquinata dalla spietata dott.ssa Lilith per fini opportunistici .


Non a caso, il film si apre nell’anno 1939, il terribile anno dello scoppio della seconda guerra mondiale, soprattutto per una nazione ancora alle prese con l’impatto distruttivo che ebbe poco prima la Grande Depressione, alimentando ancor più il mercato legato a tutte quelle pratiche parapsicologiche che promettevano di lenire le perdite e le sofferenze subite. Perchè è da ricordare, a proposito dello smarrimento dovuto alla scomparsa dei "padri", il '39 è anche l'anno della morte del padre della psicoanalisi, Sigmund Freud.


Inoltre, un aspetto importante del film è che tutto sembra ripetersi in maniera ciclica, come se la fine fosse già scritta dall'incipit in un cerchio che si chiude in modo claustrofobico: è ciò che la psicoanalisi definisce come “coazione a ripetere”, ossia la ripetizione coatta (inconscia) del passato nel presente, come fosse un copione stabile e ridondante. Infatti, all’inizio del film si vede Stan capitare “per caso” in un luna park, in fuga da un efferato segreto alle spalle, per poi ritrovarsi alla fine nel medesimo luogo, ancora in fuga dai precedenti omicidi commessi, e di nuovo in stato di miseria e di bisogno. Allo stesso modo, si vede bene come Stan, spinto dall'irrefrenabile desiderio di impossessarsi del taccuino dei segreti di Pete (e prendere così il suo posto), ripeta di nuovo l'omicidio del padre, offrendogli da bere "per sbaglio" la boccetta di metanolo invece che di etanolo, ottenuta poco prima dalle scorte del viscido Clem. Ancora una volta, nell'ambivalenza affettiva verso il "nuovo" padre trovato, l'odio prevale ricalcando il passato.


Eppure, la conclusione a cui giunge l’opera è chiara: per quanto ammaliante e seducente, alla fine la fiera delle illusioni è destinata a crollare, e la scomoda verità in un modo o nell'altro viene sempre a galla, sia per chi si è lasciato ammaliare dall'inganno, sia per lo scaltro affabulatore Stan, che, perennemente in fuga da sè stesso e dai propri mostruosi fantasmi disperatamente celati attraverso la farsa e la finzione, rimane comunque imprigionato nel proprio implacabile “destino” di uomo-bestia. Perchè è solo osservando l'uomo-bestia in gabbia, che Stan, per un attimo, riesce ad entrare in contatto con i propri demoni interiori come di fronte ad uno specchio (avendo così la possibilità non colta di interrompere il proprio fato). E infatti, è sempre in quel momento che Stan, sospinto da una sorta di sentimento di fratellanza, in un gesto d'empatia offre una sigaretta all'uomo-bestia per potergli ridonare un pò d'umanità perduta (la stessa che egli medesimo, durante la scalata sociale, inizia sempre più a degradare).


Dunque il film, come l'originale Nightmare Alley composto nei lontani anni ‘40, resta più che mai spaventosamente attuale al giorno d'oggi, quando la verità viene costantemente contraffatta e travestita da eleganti bugie, e la malattia narcisistica del nostro tempo (come la chiamerebbe C. Lasch), ha trasformato tutto in un grande show condotto da attori, illusionisti e millantatori, che, a forza di trucchi, mistificazioni e celebrazioni esasperate dell’apparenza, rivela palesemente l'intenso terrore dinanzi alle mostruosità e ai “nightmares”, gli incubi, che albergano sotto la maschera di ognuno. E l'ampia inquadratura su Enoch durante i titoli di coda, il feto deforme di Clem, immobile sul piedistallo, che col suo terzo occhio tutto vede e tutto sa (come nella storia biblica in cui siede di fianco a Dio), non fa che lanciare un violento monito all'esterno, quasi come se il confine tra il film e il pubblico in sala, tra la finzione e la realtà, di nuovo, scomparisse.



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