Relazione tenuta per il XIX Convegno Congiunto Opifer - Organizzazione Psicoanalisti Italiani Federazione e Registro - AAPDPP (American Academy of Psychodynamic Psychiatry and Psychoanalysis): Infrangere le catene del Trauma: la cura e il legame transgenerazionale (20-22 ottobre 2023).
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Riassunto: Il presente lavoro intende sottolineare come ogni trauma possa rappresentare lo scenario emblematico in cui la persona ripete costantemente quel duplice movimento conflittuale che caratterizza la natura umana: da una parte la cieca soddisfazione del desiderio (incistato nell’Es) di cui l’esperienza passata ha fissato modi e direzione (per quanto nocivi e disadattivi), dall’altra, la spinta progressiva (proveniente dall’Io nei suoi tentativi di adattarsi meglio all’ambiente) a padroneggiare e trasformare attivamente l’impotenza subita durante il trauma in un’esperienza ri-creativa.
Inoltre, rintracciando questa duplice oscillazione nei rituali e nelle antropogonie dei cosiddetti popoli primitivi, nel processo clinico e soprattutto, in modo lampante, nel fenomeno del sogno, questo lavoro sostiene e approfondisce la tesi avanzata da diversi autori psicoanalitici, che vede l’antico desiderio nostalgico dello stato beato e fusionale della vita uterina come la forza primordiale che muove la ripetizione stessa e quindi anche i diversi tentativi da parte dell’Io nel farvi fronte.
In tal senso, la terapia psicoanalitica rappresenta quello strumento che aiuta il paziente ad elaborare, cicatrizzare ed integrare gradualmente i traumi che ne hanno interrotto la crescita, e, in senso esistenziale, un tentativo di simbolizzare e tollerare la perdita (la cacciata dall’Eden) e la realtà della finitudine umana.
Infine, in una prospettiva transgenerazionale, dove il trauma viene trasmesso attraverso processi di identificazione e dinamiche relazionali variegate, è possibile osservare in senso macroscopico tale movimento attraverso le modalità con cui le generazioni cercano di elaborare i traumi di quelle precedenti, rappresentando quindi il lungo sogno di un’intera discendenza. Perciò, l’esperienza della terapia psicoanalitica, attraverso l’inedita relazione analitica, diventa in grado di spezzare la coazione a ripetere transgenerazionale, permettendo alla persona di scrivere una nuova storia per sé e per le generazioni future.
Seguendo la prospettiva freudiana sul trauma (Freud, 1895), si potrebbe sostenere che sono l’esperienza traumatica o il “trauma cumulativo” (Khan, 1963), attraverso il carico di dolore di cui sono portatori, ad amputare, impoverire e limitare alcuni aspetti della ricchezza globale del Sè, portando allo sviluppo di quella che sarà l’organizzazione difensiva patologica dell’individuo. Infatti, il trauma corrisponde ad una “ferita” (dall’etimo) causata da “quegli eccitamenti che provengono dall’esterno e sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo”, provocando una “breccia inferta nella barriera protettiva [dell’Io] che di norma respinge efficacemente gli stimoli dannosi” (Freud, 1920, p. 215). Chiaramente, l’intensità del trauma, in relazione alla forza contingente dell’Io, determina risposte difensive diverse (rimoventi o dissociative) e quindi destrutturazioni del Sé più o meno gravi, non solo ad un livello psicodinamico, ma anche fisiologico, in quanto, come descritto ampiamente da Van der Kolk (2014), l’esperienza traumatica altera il modo in cui il cervello organizza memoria e percezioni, e di conseguenza la narrativa globale rispetto alla propria storia e identità. Trauma però che, come osservava Freud (1925), rispecchia un fenomeno esagerato rispetto a tutti quei necessari microtraumi evolutivi che il bambino deve sostenere durante la crescita (abituandosi alla mancanza e alla perdita), e che poggia sempre su uno stato di impotenza (la Hiflosigkeit [Freud, 1927]), a cominciare dalla prolungata dipendenza del bambino dalle proprie figure di accudimento (praticamente sconosciuta nel resto del mondo animale), che lo rende costantemente bisognoso di aiuto su un piano psichico e fisiologico. Infatti, l'impossibilità da parte del bambino di realizzare i propri moti di autonomia nel mondo circostante, data la sua immaturità funzionale, produce uno scarto incolmabile tra quello che egli vorrebbe e quello che invece è in grado di fare, come accade in modo lampante durante la fase edipica, l'acme di tale contraddizione: "egli non può vivere i suoi desideri incestuosi se non in un modo drammatico, derivante dallo scarto cronologico tra la loro apparizione e la capacità di soddisfarli. Qui, di nuovo, la prematurazione si situa al centro del problema" (Chasseguet-Smirgel, p. 44, 1986).
Che i contenuti inconsci di cui è il trauma è foriero possano perpetuarsi da una generazione all’altra creando un processo transgenerazionale, era già noto a Freud (1913) quando scriveva prima di trasmissione filogenetica attraverso le rispettive identificazioni, eppoi in seguito trattando dell’Es come patrimonio inconscio di esperienze passate: “Sembra dapprima che le esperienze dell'Io vadano perdute per gli eredi; quando però si ripetono con sufficiente frequenza e intensità per molti individui delle successive generazioni, esse si trasformano per così dire in esperienze dell'Es, le cui impressioni vengono consolidate attraverso la trasmissione ereditaria. In tal modo l'Es, divenuto depositario di questa eredità, custodisce in sé i residui di infinite esistenze di Io, e può darsi che quando l'Io crea dall'Es il proprio Super-io, non faccia altro che trarre nuovamente alla superficie, facendole resuscitare, configurazioni dell'Io di più antica data.” (Freud, 1922, p. 57- 58)
Tuttavia, in una famiglia la trasmissione intergenerazionale degli aspetti genitoriali estromessi dal trauma non avviene solo per mezzo dei processi identificatori, ma anche attraverso tutte le infinite dinamiche che si sviluppano all’interno della fitta trama del “campo” relazionale: il non verbale, i tabù, le norme, le aspettative, le proiezioni, i fantasmi, le angosce… scriveva infatti la Schützenberger (1993) nel suo celebre saggio: “diciamo, per semplificare, che alla sua nascita - ma anche già nell’utero - il bambino riceve un certo numero di messaggi: gli si trasmette un nome di famiglia (cognome) e un nome di battesimo, un atteso secondo ruolo che dovrà assumersi o evitare, può trattarsi di un’aspettativa negativa e/o positiva. Si proietta su di lui, per esempio, il fatto che è tale e quale al ‘prozio Jules’, si pensa già che sarà esploratore, avventuriero e un ‘cattivo soggetto’ come lui; lo si trasforma in capro espiatorio o gli si fa indossare l’abito di uno morto, che la sua nascita va a rimpiazzare. Come le fate, intorno alla culla della Bella Addormentata nel Bosco, si dicono e predicono cose, ingiunzioni, scenari, un avvenire – si dicono le cose o le tacciono in un non-detto segreto e pesante – così tutto ciò contribuisce a ‘programmare’ il nascituro” (p. 160). Inoltre, il concetto di identificazione proiettiva (M. Klein, 1946), entrando direttamente nello spazio interpersonale, si puo’ prestare molto bene per descrivere questa trasmissione tra generazioni: il materiale evacuato, essendo scisso dall’Io del proiettante, non puo’ che venire trasmesso in maniera altrettanto disgregata nel ricevente, replicando di fatto i medesimi contenuti.
Infatti, come sottolineato da Kaës (1995), sono proprio quei contenuti psichici assenti da rappresentazione e da elaborazione che si conservano “attraverso” le generazoni con “modalità d’incriptamento” (p. 25) in luoghi ombrosi e apparentemente vuoti. Già Bion (1985), occupandosi dei gruppi, aveva individuato i cosiddetti “pensieri senza pensatore”, mentre più recentemente, Abraham e Torok (1993) hanno parlato di vere e proprie “cripte” in grado di accogliere al loro interno segreti familiari indicibili che nel tempo si incistano nell’inconscio amputando i processi identificatori. Si tratta cioè di tutto ciò che nella trama familiare non può venire narrato, di “un saputo non saputo" (ibid.) che costituisce una sorta di mito familiare inconscio in grado di foggiare il modo in cui la realtà verrà significata dalle varie generazioni. Dunque, in una prospettiva transgenerazionale è come se ogni generazione inevitabilmente si facesse carico dei fantasmi e delle falle traumatiche degli antenati, trovandosi già dalla nascita immersa in una coazione a ripetere generazionale potenzialmente infinita (la nevrosi da “destino”). Scriveva infatti Freud (1914): “l’individuo conduce effettivamente una doppia esistenza: una in cui egli è fine a se stesso e l’altra come membro di una catena a cui è assoggettato contro la sua volontà o almeno senza la partecipazione di questa”. (p. 25) Ma il fatto che questa trasmissione inconscia sia così pervicace da resistere alle influenze del tempo, porta a domandarsi quale sia la forza soggiacente a tale fenomeno e per quale motivo essa si debba esprimere con tanta insistenza, di fatto in ogni modalità umana d’essere nel mondo (Binswanger, 1963).
Come già aveva osservato da Freud (1920) attraverso il celebre esempio del gioco del rocchetto del piccolo Ernst, e in seguito analizzando i casi delle “nevrosi belliche” (Freud, 1925) dovuti ai numerosi casi di shellshock (patologie post-traumatiche da esposizioni da bombardamento durante la prima guerra mondiale), sembra che nella coazione a ripetere si verifichi, forse in maniera macroscopica, l'emblematica lotta dell’Io per rimaneggiare ciò che il trauma ha cristallizzato nella vita psichica inconscia. Infatti, come osservava Loewald (1980), in ogni ostinata ripetizione traumatica abita un maldestro tentativo di ri-creare l’evento traumatico in senso attivo: “il prototipo esiste per essere trasformato in modo creativo, poietico, originale, attraverso l’atto della ripetizione, e non per essere imitato passivamente o riprodotto fedelmente, nè per essere negato” (p.80). In altri termini, esiste un aspetto della ripetizione che, oltre al passato, è rivolto anche al futuro, come se l’Io volesse trionfare narcisisticamente su ciò che il trauma ha fissato nell'Es, rovesciando l’impotenza subita in un senso di padroneggiamento al fine di produrre un migliore adattamento alla realtà circostante (Hartmann, 1939).
In clinica tale aspetto della ripetizione è stato abbondantemente studiato dal gruppo di ricerca di San Francisco che ha elaborato la control master theory (Weiss, 1993), secondo cui le persone possiedono un "piano inconscio" con il quale esse vanno alla ricerca di situazioni simili alle condizioni originarie, al fine di “risolverle” diversamente da come sono andate in passato. Pertanto il paziente, oltre che volere gratificare desideri infantili inappagati (transferali), ricercherebbe anche una nuova esperienza (riparativa) con oggetti capaci di superare delle prove, dei "test", allo scopo di disconfermare le “credenze patogene” che egli ha sviluppato dalle proprie esperienze passate.
Anche una buona parte della letteratura psicoanalitica sul sogno (soprattutto quella recente) è in linea con tali formulazioni. Infatti, come già evidenziava Fromm (1952) descrivendo il sogno come una lastra completa della vita psichica del sognatore e non solamente come la cieca rappresentazione della gratificazione del desiderio, il fenomeno onirico, attraverso la drammatizzazione simbolica delle quotidiane esperienze diurne, svolge anche attività di problem-solving (Lichtenberg J., Lachmann F., Fosshage J., 1992), dimostrando qualità traumatolitiche (Ferenczi, 1931), integrative (Fossi, 1992) ed emotivamente “metaboliche” (Langs, 1988). Alcuni autori (Benedetti e Peciccia, 1995; Nathan, 2011) ne hanno sottolineato le funzioni predittive da un punto di vista evoluzionistico: ogni notte, come attraverso la sequenza di fotogrammi di una pellicola cinematografica, il sogno riprodurrebbe alcuni aspetti della realtà esterna simulando “virtualmente” soluzioni e risposte funzionali a problematiche interiori e sociali che riguardano il sognatore.
Eppure la clinica psicoanalitica sa bene quanto sia difficile e dispendioso per il paziente tutto il processo che, attraverso la relazione analitica, consente di elaborare, cicatrizzare ed integrare gradualmente il trauma per consentire alla persona di poter dirigere nuovamente le proprie energie vitali in modo più “libero”. Ed è altrettanto risaputo che questa difficoltà a cambiare derivi dalle esperienze primarie con gli oggetti primari, definite in letteratura in svariati modi (“relazioni oggettuali interiorizzate” da Fairbairn [1952], “modelli operativi interni” da Bowlby [1973], "rappresentazioni interne generalizzate" da Stern [1985], “configurazioni relazionali” da Mitchell, [1988]). Ossia schemi comportamentali e relazionali (i famigerati clichès), che per quanto possano diventare disadattivi, rigidi e penosi (ossia patologici), costituiscono per l’individuo l’unica modalità con cui l’Io trova gratificazioni libidiche e quindi la via obbligata che il desiderio può percorrere verso l’oggetto (basti pensare a Freud [1937] quando scriveva sulla “viscosità della libido” e sulle “resistenze dell’Es”). E dunque, come si riscontra abbondantemente dalla clinica, é molto più probabile che la persona, più che successi, finisca per accumulare una lunga serie di fallimenti nei suoi tentativi di padroneggiare la situazione traumatica. Ciò accade probabilmente a causa di un fitto intreccio dinamico ben documentato dalla letteratura: meccanismi di difesa troppo rigidi e maladattivi che si riattivano automaticamente creando “involontariamente” proprio i risultati temuti (la profezia che si autoavvera); stati di eccitazione collegati indirettamente con la situazione traumatica che possono venire ricercati per la scarica di tensione ad essa connessa (Van der Kolk, 2014), provocando uno stato analgesico in grado di creare una sorta “dipendenza” fisiologica; meccanismi distruttivi di stampo psicotico che minano ad ogni possibilità di buona riuscita nella nuova esperienza oggettuale (vd. "l'attacco al legame" descritto da Bion [1962]). Inoltre, alcuni autori (Hartmann, Kris, & Lowenstein, 1949; Garma, 1966) hanno notato come anche nei sogni in cui la persona rimette in scena ripetutamente l’episodio traumatico allo scopo di sviluppare un controllo retrospettivo su tale evento, sia possibile comunque rintracciare sullo sfondo l’espressione di qualche desiderio “scottante”, all’interno di un intreccio narrativo dove la realtà si mescola in maniera intricata alle fantasie e ai conflitti del sognatore.
Ma se, non a caso, Freud (1919) alludeva al “carattere demoniaco” della coazione a ripetere, che si pone al di là di ogni ragionevole “piacere” (Freud, 1920) dato tutto il carico di dolore annesso alla ripetizione stessa, ciò è dovuto, io credo, a quell’ardente e ineluttabile sentimento di nostalgia verso “il luogo in cui ognuno ha dimorato un tempo e che è anzi la sua prima dimora" (Freud, 1919, p. 106), che costituisce la vera “roccia basilare” dell’uomo (Freud, 1937) nonchè l’aspetto più “umbratile” della sua coscienza (Freud, 1931). Esso, designato in diversi modi quali l’antico stato “oceanico” (Freud, 1929), “thalassico” (Ferenczi, 1924) o “elazionale” (Grunberger, 1971), sta ad indicare quello stato di beatitudine, completezza, unione totale e onnipotenza che il bambino ha sperimentato prima nel grembo materno e in seguito durante i primi mesi di vita nell’originaria monade fusionale con la madre, che nell’inconscio fungerà da fons et origo per ogni meta futura (Balint, 1965). Freud (1914) infatti scriveva che "lo sviluppo dell'Io consiste nel prendere le distanze dal narcisismo primario e dà luogo a un intenso sforzo inteso a recuperarlo" (p. 470), mentre poco dopo Rank (1924) dirà che l’agire umano è il risultato di un compromesso tra le richieste imposte dalla realtà e questa tendenza inestinguibile che cerca di "avvicinare il più possibile il mondo esterno allo stato originario di cui si ha una precedente esperienza" (p. 45). Il desiderio di completare qualcosa rimasto in sospeso (l’unione fusionale con l’oggetto), con la speranza di risanare la frattura originaria (non a caso Rank [1924] parlava di trauma della nascita), farà dell’uomo un animale sostanzialmente ammalato di nostalgia, costantemente impegnato a subire, dirigere, trasformare questa inevitabile assenza. Infatti, nell’opera che lo ha reso celebre, Brown (1959) considerava l’essenza della natura umana come nevrotica, scrivendo che “l’uomo è quell’animale che eternamente si propone di riconquistare la propria infanzia”, e che cerca di “ristabilire quell’unità dei contrari che esisteva nella sua infanzia e che esiste negli animali” (p. 116). E forse, è proprio il desiderio chimerico di ripristinare in modo identico ciò che inevitabilmente la crescita ha spezzato, ossia la rincorsa verso una quiete totale che mira all’estinzione della tensione e che si oppone al "perpetuo agitarsi della materia vivente" (Carloni in Roheim, 1973, p. 8), ciò a cui Freud (1920) alludeva con la concettualizzazione della “pulsione di morte”. Perché questo richiamo alla vita intrauterina non rappresenta solo il ricettacolo di calore, beatitudine e pace, ma anche l’indistinto, l’inghiottimento e quindi la dissoluzione dell’Io; cosicché, in altri termini, l’originaria unità indifferenziata costituisce un pericolo tanto grande per l’Io quanto una bramosia irrinunciabile, "paradiso perduto e minaccia di perdita dell'Io, soddisfazione eterna e morte, fascinazione e orrore." (Chasseguet, 1986, p. 91).
Nel suo studio monumentale sui sogni dei cosiddetti popoli primitivi, Ròheim (1973) ha individuato quello che ha definito il "sogno fondamentale": in certi sogni emblematici l’autore ha notato come il sognatore compia una sorta di movimento tipico, ovvero ritorna nel grembo materno (discende regressivamente in simboli uterini) per poi risollevarsi (l'ascesa progressiva attraverso simboli fallici), fino a giungere al risveglio (la rinascita). Anche Fachinelli (1983), attraverso l’analisi dei cosiddetti sogni perinatali, ha enfatizzato la “tendenza claustrofilica” dell’uomo (la spinta profonda del ritorno nel corpo materno), in cui l’intensa fascinazione al “soggiorno uterino” si mescola a puro terrore, così come nei cosiddetti sogni che evocano il parto (l’esperienza catastrofica della nascita [Rank, 1924]), possono apparire sia un senso di conquista e di liberazione, che nuovamente un moto all'indietro (“reinfetazione”).
Tale fenomeno si riscontra frequentemente anche in tutta quella dimensione rituale delle culture primitive che ruota attorno alla discesa e all'ascensione del grembo materno (rituali di immersione ed emersione), con frequenti simbolismi al parto (rituali di genesi, di morte e di resurrezione): essa non rappresenterebbe altro che la drammatizzazione di tale movimento psichico attraverso simulazioni simboliche dell'entrare, cadere, mescolarsi, scendere, per poi "volare", uscire, arrampicarsi, salire. D'altronde, quasi tutte le antropogonie (e quindi anche le cosmogonie in quanto proiezioni, dove ricorre il ciclo di vita-morte-rinascita) costituiscono spiegazioni di come l'uomo sia emerso alla superficie dal grembo della Madre Terra (Eliade, 1957). Ad esempio, per molti popoli il calar della notte acquista il senso antropomorfico del sole che rientra nel ventre materno (Rank, 1924); presso la cultura sciamanica degli indiani d'America (ma anche tra le culture celtiche o tra i preispanici della Mesoamerica) era diffusa la cerimonia Inipi (o Temazcal), ossia il rito dell'ingresso nella "capanna sudatoria" (o della depurazione), che, simulando l'ambiente uterino attraverso il buio e il vapore generato da acqua versata su pietre roventi, doveva rigenerare l'individuo attraverso una nuova nascita (l'uscita dalla capanna).
In tale prospettiva, il trauma si puo’ rappresentare come quell’evento evolutivo che ha interferito con lo sviluppo dell’Io nei termini della sua differenziazione con l’Es (non a caso Freud parlava di fissazione), ossia durante tutto quel processo di individuazione (Mahler et Al., 1975) che spinge il bambino fuori dalla matrice originaria simbiotica con la madre. E, utilizzando la lente macroscopia del fenomeno transgenerazionale, diventa possibile quindi osservare il modo caratteristico con cui ogni generazione ha tentato di cicatrizzare questa antica frattura attraverso l’elaborazione dei traumi che le sono propri, apparendo quindi, per processi, funzioni e drammatizzazioni, come un lungo sogno genealogico di un’intera discendenza. E in esso, come si è visto, i traumi vengono rimessi in scena continuamente attraverso un duplice movimento della psiche: uno progressivo e integrativo (le funzioni sintetiche dell’Io che tentano di dirigere e trasformare tale forza), e un altro regressivo che punta direttamente alla meta per “ridar vita al fantasma del ricordo, completare questa insufficienza e resuscitare la presenza in carne e ossa" (Jankélévitch, 1974, p. 149, in Prete, 2018).
D’altronde, questa perpetua lotta è proprio ciò che si osserva quotidianamente in ambito clinico: durante tutto l’arco della terapia il paziente oscilla continuamente tra antiche modalità regressive patologiche, e graduali tentativi progressivi di cambiamento, alla lenta scoperta di prospettive inedite e di nuovi scenari relazionali (il new beginning [Balint, 1968]). E il buon esito del processo analitico potrà compiersi non illudendo il paziente di poter colmare realmente le assenze originarie attraverso la compensazione dei traumi passati, come lasciava intendere Alexander (1946) con “l’esperienza emozionale correttiva” e ancora prima Ferenczi (1932) nei suoi esperimenti tecnici spinti ad absurdum, ma aiutandolo ad elaborare il lutto per quelle mancanze al fine di riprendere la crescita che il trauma ha interrotto (maggior forza dell’Io). Infatti, la scoperta e la reviviscenza dei traumi originari, senza la possibilità di poterli correggere nel presente potendo solo “riconcepirli” (Etchegoyen, 1986), corrisponde ad una vera e propria situazione di lutto, di perdita, di solitudine inevitabile, in cui si realizza l’impossibilità della fusione con l'oggetto arcaico e crolla l'onnipotenza riparativa (Segal, 1955).
Eppure, se è vero che la terapia psicoanalitica si propone di aiutare ad elaborare il lutto per tali mancanze, l’arte stessa, che nasce da questa "fascinazione del lontano" (Prete, 2018, p. 19), insegna tuttavia che è impossibile per l’uomo riuscire a tollerare seraficamente la cruda realtà che, per tautologia, è costituita da “surrogati” (quindi mai del tutto soddisfacenti [Freud, 1907]), e potere accettare la propria natura mortale, sopprimendo quella spinta inestinguibile a trascendere la propria finitudine (Becker, 1973). Per questo appare così essenziale la nascita del simbolo (e quindi della capacità di simbolizzare) che, nella sua funzione eterna e creativa, di fatto rappresenta "il ritorno interno ri-creativo della matrice madre-bambino della vita psichica" (Loewald, 1988, p. 32), senza il quale l’essere umano non potrebbe mai sopportare la cacciata da quel paradiso, che per definizione, è sempre perduto. Così, la terapia psicoanalitica può divenire in grado di “qualificare” tale vuoto incolmabile (Starobinski, 2012), rendendolo quindi materiale interiore fruibile per il futuro, solo se “il lavoro svolto dal terapeuta ha come fine di portare il paziente da uno stato in cui non è capace di giocare a uno stato in cui ne è capace” (Winnicott, 1971, p. 79), come accade al bambino eracliteo che continua a costruire castelli di sabbia sulla battigia, nonostante l'arrivo improvviso delle onde (Nietzsche, 1872).
Concludendo, se ne deduce che, al pari delle “esperienze infantili che rappresentano la matrice indistruttibile di tutte le esperienze successive” (Loewald, 1980, p. 218), la forza che condanna l’uomo alla sua rovinosa autodistruzione (come accade nella psicopatologia) è la medesima che funge da energia vitale, creativa e generatrice, costituendo quindi un “crinale apparentemente sottile che separa esperienze benefiche, nutritive, felicemente fusionali, da agonie di cadute vertiginose senza fine” (Masina in AA.VV, 2018). Ciò costituisce quel paradosso esistenziale che, come ha osservato bene Friedman (1988), descrive anche l’essenza della psicoterapia, dove il transfert, foriero della speranza di gratificare antichi bisogni infantili (per quanto disadattivi e disfunzionali per la persona), rappresenta proprio quello strumento (“il transfert positivo irreprensibile” [Freud, 1912] o “l’alleanza terapeutica” [Greenson, 1967]), che permette alla terapia di compiersi e quindi di spezzare la coazione a ripetere transgenerazionale, affinché il singolo individuo possa scrivere per se stesso e per le generazioni future una storia differente rispetto a quella tramandata in maniera coatta.
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